mercoledì, settembre 20, 2006

multa al medico che ingiuria il collega

Vanno considerate diffamatorie le
frasi dette da un medico a un
collega, nelle quali si ravvisi un particolare
astio e una lesione della deontologia
professionale. Altri aspetti
che, configurando l’ingiuria, sono la
perdita di immagine nei confronti dei
colleghi e la critica ingiustificata di
un particolare aspetto della professione,
quello del rapporto di fiducia tra
sanitario e paziente, un rapporto «di
altissimo profilo morale».
A occuparsi di una diatriba tra chirurghi
è la Corte d’appello di Milano
(seconda sezione) in una sentenza depositata
in segreteria il 22 giugno
scorso (la decisione è stata presa nella
camera di consiglio del 15 giugno)
che conferma la decisione di primo
grado del giudice unico del tribunale
di Milano (datata 22 febbraio 2005).
Il dottore era stato condannato a
una multa di 350 euro (non menzione
al casellario) e a un risarcimento danni
di 5mila euro per aver diffamato il
collega in una lettera inviata per conoscenza
anche al direttore scientifico e
al commissario straordinario della
struttura ospedaliera. La missiva, che
era comunque una risposta, conteneva
la frase che è costata la pesante
sanzione.
Ecco il passaggio incriminato: «Il
dottore manifesta discutibile senso di
responsabilità verso i pazienti, disinteresse
decisionale verso i malati, scomparsa
dalla gestione dei contatti col
paziente e i familiari, nonché dai rapporti
con i colleghi».
Inoltre venivano elencati sette casi
nei quali si erano verificati comportamenti
negligenti, compreso un episodio
di una garza rimasta nell’addome
di una paziente.
In realtà la dimenticanza non era
attribuibile a quel medico, ma si trattava
di una falsità «idonea a ingenerare
nel lettore la convinzione o anche
solo il sospetto di un’attribuibilità di
tale fatto al dottore».
La frase ingiuriosa e l’accusa infondata
sono i due elementi fondamentali
per respingere il ricorso in
appello, nel quale il medico condannato
chiedeva che le sue espressioni
rientrassero nel diritto di critica. «Tale
scriminante - precisa la Corte -
trova un limite interno nella veridicità
del fatto storico che, nella fattispecie,
non sussiste».
Oltre alle «insinuazioni» anche il
«significato delle espressioni» e il
«contesto in cui si inseriscono» sono
aspetti fondamentali della diffamazione.
A questi fattori si aggiunge il
«riferimento, del tutto immotivato» a
presunte negligenze «idonee a ingenerare
la convinzione o anche solo il
sospetto di tale fatto al soggetto». Anzi,
tali episodi «rappresentano la cartina
di tornasole dell’animus che sorreggeva
la condotta dell’imputato».
Si evince, insomma, la volontà di
offendere, aggredire l’interlocutore e
svilire l’immagine dello stesso nei
confronti di colleghi o di terzi interessati.
Gabriele Mastellarini
CORTE D’APPELLO DI MILANO
Multa al medico che ingiuria il collega